7 settembre 1946, pomeriggio, sull' "Unidad", nel Diario de la tarde, di San Sebastián (Spagna), appare un'intervista a Beniamino Gigli :
«C'è chi dice che io presumo di essere il maggiore tra i tenori del mondo, ma niente è più lontano dai miei pensieri. Io so solamente che madre natura mi ha donato facoltà eccezionali e che in seguito ho avuto la grande fortuna di incontrare un grande maestro di canto, Rosati, che vive tuttora a New York. A questi due fattori devo tutto ciò che io sono e il fatto di cantare come canto. Non è mio merito né più né meno, perché io mi sono lasciato condurre, ho lavorato con fede e con affetto, e in seguito non mi sono mai allontanato dalla linea che mi hanno tracciato i miei maestri, e oggi posso dire che la mia voce è ferma e sicura come deve sempre essere udita.
Nelle mie "performances" per il mondo, e concretamente al Metropolitan, ho avuto occasione di conoscere i tenori spagnoli Miguel Fleta e Ipolito Làzaro. Io li ammiravo veramente, ma purtroppo oggi la loro voce non esiste più. Io però ho cantato anche con altri interpreti spagnoli quali José Mardones e Lucrezia Bori, e di costoro posso dire che erano un caso simile al mio. Qui in Spagna è la seconda volta che mi esibisco. Nel 1917 ho cantato al Liceo di Barcellona e al Real di Madrid, e quando penso a questi due momenti della mia vita mi torna in mente un episodio che tengo molto caro. A Madrid vivevo in un Hotel molto vicino al Teatro Real. Una notte, un giornalista voleva farmi un'intervista, ma io gli dissi che l'avrei ricevuto il giorno seguente alle ore 10 del mattino. E così fu perché un cameriere dell'Hotel, un certo Paco, il giorno dopo mi chiamò e mi disse che in basso c'era un signore che chiedeva di vedermi. Io gli dissi in italiano: Che salga (que suba). Il cameriere fece il suo dovere ben sapendo che le parole Che salga significavano in castigliano esattamente il contrario. Anche in questa mia seconda tournée in Spagna ho il piacere di profittare della gentilezza e della disponibilità delle città, della gente e dell'ambiente. (...)
Esistono pochi maestri di canto buoni. L'unico segreto dei maestri di canto consiste nel non deformare nemmeno il minimo dettaglio che la natura abbia donato al cantante o all'aspirante tale in ciò che è il suo organo d'emissione naturale. Nel momento in cui questo viene forzato si spacca, per cui tanti esordienti che parevano inizialmente brillare, ben presto si eclissano. Il lavoro del maestro di canto sta senza dubbio qui, mentre l'allievo deve avere una totale fiducia in quello che sta facendo sotto la guida di un insegnante. E' evidente che se il maestro non conosce il suo mestiere, il risultato potrà essere disastroso. Il maestro deve innanzitutto prendere nota delle qualità del suo allievo e delle possibilità che ha di riuscire, in modo da sviluppare le facoltà del giovane senza modificare nulla della sua voce. Purtroppo un tenore "lirico" vorrebbe diventare un "lirico spinto", come pure un "lirico spinto" tende verso il "drammatico". Quanti equivoci per questo motivo! Io so per esperienza personale che all'inizio dei miei studi cercavo di emettere la mia voce con impeto, senza economizzarla, preferendo i passaggi più arditi del genere drammatico. Il maestro Rosati, che si fece carico d'insegnarmi, ci mise due anni ad impostare la mia voce con brani più leggeri possibile e con piccole frasi liriche. Io mi disperavo, ma lui sembrava non preoccuparsene, fino a quando, dopo due anni, ho raccolto il frutto della mia ubbidienza, al punto che ho avuto alcuni momenti di sconforto pensando che non avrei mai potuto percorrere la strada iniziata. E lo stesso succede per i soprano e in generale per tutte le corde.
Quanto al punto che lei ha toccato concernente l'interpretazione delle opere, il pubblico di solito aspetta di sentire le arie più famose e, cantate queste, tutto il resto della rappresentazione passa in secondo piano. Io, durante tutta la rappresentazione invece, vivo il personaggio che rappresento, lo sento intimamente, ne studio frase per frase, scena per scena, metto sentimento in tutto ciò e m'attengo al dettato dell'autore. A proposito di ciò alla Scala, quando Aureliano Pertile cantava "Il Trovatore", nel punto della celebre pira del IV atto, non fece il "do di petto" così tradizionale ma si contentò piuttosto di un "sol naturale". Il giorno seguente tutta la critica milanese esclamava compiaciuta: "Era ora di evitare vizi stupidi!" Chiaramente ciò fu possibile perché dirigeva l'orchestra il maestro Arturo Toscanini che impedì di cantare il "do di petto". Questo però è un piccolo fatto dei quali gliene potrei riferire a migliaia. A me personalmente importa di cantare ciò che il compositore ha scritto e non di copiare ciò che qualche cantante ha introdotto estemporaneamente nell'opera o per farsi applaudire con l'acuto, o per coprire la sua incapacità. Noi dobbiamo educare il pubblico ad esigere il preciso dettato del compositore in modo da non pregiudicare la riuscita della rappresentazione. Grazie a questo criterio la mia voce è rimasta intatta e le mie facoltà vocali integre al punto che credo di cantare per molti anni ancora.»
(da "Beniamino Gigli a San Sebastián. L'uomo, il cantante, il maestro" - Intervista a Beniamino Gigli, firmata da Angel Inaraja Ruiz, apparsa nel pomeriggio del 7 settembre 1946, sull' "Unidad", nel Diario de la tarde, di San Sebastián - Spagna)
[N.B. il 7 settembre 1946, alle ore 22.30, presso il Teatro Victoria Eugenia di S. Sebastián, Beniamino Gigli canta "Manon" di Massenet con M. Favero, G. Manacchini, R. Torres, direttore N. Annovazzi.]
«C'è chi dice che io presumo di essere il maggiore tra i tenori del mondo, ma niente è più lontano dai miei pensieri. Io so solamente che madre natura mi ha donato facoltà eccezionali e che in seguito ho avuto la grande fortuna di incontrare un grande maestro di canto, Rosati, che vive tuttora a New York. A questi due fattori devo tutto ciò che io sono e il fatto di cantare come canto. Non è mio merito né più né meno, perché io mi sono lasciato condurre, ho lavorato con fede e con affetto, e in seguito non mi sono mai allontanato dalla linea che mi hanno tracciato i miei maestri, e oggi posso dire che la mia voce è ferma e sicura come deve sempre essere udita.
Nelle mie "performances" per il mondo, e concretamente al Metropolitan, ho avuto occasione di conoscere i tenori spagnoli Miguel Fleta e Ipolito Làzaro. Io li ammiravo veramente, ma purtroppo oggi la loro voce non esiste più. Io però ho cantato anche con altri interpreti spagnoli quali José Mardones e Lucrezia Bori, e di costoro posso dire che erano un caso simile al mio. Qui in Spagna è la seconda volta che mi esibisco. Nel 1917 ho cantato al Liceo di Barcellona e al Real di Madrid, e quando penso a questi due momenti della mia vita mi torna in mente un episodio che tengo molto caro. A Madrid vivevo in un Hotel molto vicino al Teatro Real. Una notte, un giornalista voleva farmi un'intervista, ma io gli dissi che l'avrei ricevuto il giorno seguente alle ore 10 del mattino. E così fu perché un cameriere dell'Hotel, un certo Paco, il giorno dopo mi chiamò e mi disse che in basso c'era un signore che chiedeva di vedermi. Io gli dissi in italiano: Che salga (que suba). Il cameriere fece il suo dovere ben sapendo che le parole Che salga significavano in castigliano esattamente il contrario. Anche in questa mia seconda tournée in Spagna ho il piacere di profittare della gentilezza e della disponibilità delle città, della gente e dell'ambiente. (...)
Esistono pochi maestri di canto buoni. L'unico segreto dei maestri di canto consiste nel non deformare nemmeno il minimo dettaglio che la natura abbia donato al cantante o all'aspirante tale in ciò che è il suo organo d'emissione naturale. Nel momento in cui questo viene forzato si spacca, per cui tanti esordienti che parevano inizialmente brillare, ben presto si eclissano. Il lavoro del maestro di canto sta senza dubbio qui, mentre l'allievo deve avere una totale fiducia in quello che sta facendo sotto la guida di un insegnante. E' evidente che se il maestro non conosce il suo mestiere, il risultato potrà essere disastroso. Il maestro deve innanzitutto prendere nota delle qualità del suo allievo e delle possibilità che ha di riuscire, in modo da sviluppare le facoltà del giovane senza modificare nulla della sua voce. Purtroppo un tenore "lirico" vorrebbe diventare un "lirico spinto", come pure un "lirico spinto" tende verso il "drammatico". Quanti equivoci per questo motivo! Io so per esperienza personale che all'inizio dei miei studi cercavo di emettere la mia voce con impeto, senza economizzarla, preferendo i passaggi più arditi del genere drammatico. Il maestro Rosati, che si fece carico d'insegnarmi, ci mise due anni ad impostare la mia voce con brani più leggeri possibile e con piccole frasi liriche. Io mi disperavo, ma lui sembrava non preoccuparsene, fino a quando, dopo due anni, ho raccolto il frutto della mia ubbidienza, al punto che ho avuto alcuni momenti di sconforto pensando che non avrei mai potuto percorrere la strada iniziata. E lo stesso succede per i soprano e in generale per tutte le corde.
Quanto al punto che lei ha toccato concernente l'interpretazione delle opere, il pubblico di solito aspetta di sentire le arie più famose e, cantate queste, tutto il resto della rappresentazione passa in secondo piano. Io, durante tutta la rappresentazione invece, vivo il personaggio che rappresento, lo sento intimamente, ne studio frase per frase, scena per scena, metto sentimento in tutto ciò e m'attengo al dettato dell'autore. A proposito di ciò alla Scala, quando Aureliano Pertile cantava "Il Trovatore", nel punto della celebre pira del IV atto, non fece il "do di petto" così tradizionale ma si contentò piuttosto di un "sol naturale". Il giorno seguente tutta la critica milanese esclamava compiaciuta: "Era ora di evitare vizi stupidi!" Chiaramente ciò fu possibile perché dirigeva l'orchestra il maestro Arturo Toscanini che impedì di cantare il "do di petto". Questo però è un piccolo fatto dei quali gliene potrei riferire a migliaia. A me personalmente importa di cantare ciò che il compositore ha scritto e non di copiare ciò che qualche cantante ha introdotto estemporaneamente nell'opera o per farsi applaudire con l'acuto, o per coprire la sua incapacità. Noi dobbiamo educare il pubblico ad esigere il preciso dettato del compositore in modo da non pregiudicare la riuscita della rappresentazione. Grazie a questo criterio la mia voce è rimasta intatta e le mie facoltà vocali integre al punto che credo di cantare per molti anni ancora.»
(da "Beniamino Gigli a San Sebastián. L'uomo, il cantante, il maestro" - Intervista a Beniamino Gigli, firmata da Angel Inaraja Ruiz, apparsa nel pomeriggio del 7 settembre 1946, sull' "Unidad", nel Diario de la tarde, di San Sebastián - Spagna)
[N.B. il 7 settembre 1946, alle ore 22.30, presso il Teatro Victoria Eugenia di S. Sebastián, Beniamino Gigli canta "Manon" di Massenet con M. Favero, G. Manacchini, R. Torres, direttore N. Annovazzi.]